Lisbona, casa

Lisbona casa

La prima notte a Lisbona, con Simone, il mio amico di Torino che aveva vinto la borsa Erasmus come me, andammo a dormire nella stanza in affitto nell’appartamento di una signora portoghese molto anziana. Restammo lì qualche giorno, giusto il tempo di cercare una sistemazione un po’ più stabile. Fu Simone a trovare casa per primo, in rua da Prata, in una delle famose case Erasmus dell’epoca: le case Erasmus che contribuirono alla rivalutazione e al recupero del centro di Lisbona in un periodo in cui in quella zona nessuno dei Lisboeti voleva abitare.

La Baixa, il Bairro Alto, una parte di Marques Pombal, la Mouraria, l’Alfama erano piene di palazzi meravigliosi in condizioni terribili: da anni le famiglie avevano cominciato ad abbandonare il centro e ad andare a vivere in zone più periferiche, in condomini più moderni, con più servizi, e possibilmente con il riscaldamento.

Gli studenti che dagli anni ’80 in poi cominciarono ad arrivare a Lisbona da tutta l’Europa volevano invece vivere dentro Lisbona, dentro il suo cuore, nella parte più caratteristica – anche se in quelle stanze d’inverno faceva freddo, anche se il legno delle strutture era umido e gli azulejos rotti – e dettero vita a un mercato di camere e appartamenti in affitto che anno dopo anno ridonò vita e luce a quelle zone.

Seguii Simone in quel suo primo appartamento in rua da Prata, nella Baixa, e una sera andammo a bere qualcosa proprio in quella che avrei chiamato casa per i dodici mesi successivi: un appartamento di 480 metri quadri al terzo piano di un palazzo tipico pombalino di rua Castilho, un appartamento in cui abitavano quindici persone. In quella casa, che tutti chiamavano Casa Castilho, era da poco arrivata una ragazza italiana che – una coincidenza che mi ha sempre fatto sorridere – si chiamava Simone, alla francese, e che dopo qualche birra mi disse «Stai cercando un posto dove stare? Perché qua fra qualche giorno si libera una stanza». Eravamo seduti tutti in cucina attorno al tavolo, mi disse «Vieni, ti faccio vedere il resto della casa», e mi portò in quello che mi sembrò un sogno: un corridoio lunghissimo fatto a U sul quale si affacciavano tante stanze, una per ogni ospite, quadri e immaginette sacre che si alternavano a poster e scritte in ogni lingua, azulejos e tappeti impolverati, la sensazione di essere in un posto unico che avrebbe dato senso a ogni mio minuto a Lisbona.

Dissi a Simone che non mi sarei lasciata scappare l’occasione, e tre giorni dopo io e le mie due valigie enormi bordeaux sbarcammo in quella che per me, per noi, è stata una casa, una famiglia, una dimensione, un mondo.

Con me, Simone, Susana, Carlos, Pedro, Linea, Pepa, Helena e tanti altri di cui non ricordo il nome abitava Ico, il padrone di casa. Aveva ereditato l’appartamento dai genitori morti presto, aveva altri appartamenti in centro e si manteneva affittando stanze agli Erasmus.
Ma forse la storia non è davvero così: insieme a me, Simone, Susana, Carlos, Pedro, Linea, Pepa e Helena abitava Ico, la persona che aveva capito da tempo che affittare camere agli studenti Erasmus era un ottimo business e che aveva affittato per pochi escudos al mese questo appartamento di un palazzo decrepito del centro, subaffittandolo poi a noi ragazzi stranieri innamorati della Lisbona più autentica.
Non ho mai capito quale fosse la verità, quello che so è che Ico sembrava uscito da un film di Almodovar, aveva più o meno trent’anni, usciva di casa intorno a mezzanotte per tornare all’alba, dormiva fino a tardi, organizzava feste meravigliose nel suo salone (avevamo due saloni, uno per noi e uno per lui), feste che noi osservavamo da fuori, esaminando gli invitati che entravano e uscivano da quelle porte bianche, e a volte ci lasciava sul tavolo gli inviti a delle serate surreali nei locali più incredibili della città.

Chi arriva nella Lisbona splendente di oggi ha di sicuro delle difficoltà a immaginare un centro scuro, pericoloso, con palazzi sporchi e cadenti, pieni di infiltrazioni e di piante che spuntano dai tetti e dai muri. Eppure quella Lisbona, quella degli anni ’80 e ’90 era così, ed era già bellissima, piena di storie e di racconti, piena di quella decadenza così intimamente legata alla saudade, piena di un passato glorioso naufragato nell’oceano, e allo stesso tempo piena di orgoglio e di voglia di guardare al futuro.

Nel Club del Libro che gestisco insieme alla Libreria Italiana Lussemburgo ieri, durante l’incontro su una delle letture, ci siamo chiesti che cosa significhi per noi casa.
Io dico sempre che casa per me è dove il cuore non fa fatica. Lussemburgo è casa, Torino è casa, Parigi è casa, vari luoghi nel mondo sono casa per me perché il mio cuore in quei luoghi si ritrova e trova le risposte che cerca.
Lisbona è casa da quel giorno di ottobre del 1998 in cui salii con due valigie bordeaux le scale cigolanti di rua Castilho 15. È casa, porto sicuro, ponte verso quel passato che mi ha liberata e costruita, è famiglia, è il posto in cui non solo il mio cuore non fa fatica, ma rinasce ogni volta, si riempie di saudade per trasformarla in bellezza, si nutre di tutto quello che Lisbona riesce sempre a donargli.

Pubblicato da Valentina Stella

Torinese, vivo in Lussemburgo, scrivo, racconto la cultura portoghese e accompagno gruppi a Lisbona. Ho scritto Se mi lascia non vale, per Zandegù, e Il resto è ossigeno, per Sperling & Kupfer.

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