A Lisbona c’è un luogo in cui tutti guardano la cosa sbagliata. E la cosa sbagliata è bella: è la Casa dos Bicos, un palazzo storico metà antico metà moderno ispirato al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Ed è anche interessante: lì ha sede la Fondazione José Saramago, l’unico premio Nobel per la Letteratura che il Portogallo abbia mai avuto. Per cui capita di vedere gruppi di turisti con il naso all’insù, affascinati dalla facciata (che prima del terremoto non era la facciata ma un lato) del palazzo e dall’importanza dell’autore di Cecità. Ma appunto, è la cosa sbagliata da vedere. Dietro le schiene dei turisti c’è un ulivo che quasi non si nota, e sotto quell’ulivo che quasi non si nota ci sono le ceneri proprio di José Saramago. C’è l’orma di un elefante, e poi c’è una scritta: mas não subiu para as estrelas, se à terra pertencia.
Quando arrivo in quel punto durante i weekend LuzBoa devo sempre lottare con le lacrime. Perché mi emoziona ogni volta pensare di essere lì dove lui riposa, ma soprattutto mi emoziona pensare alla sua storia con il Portogallo: un grande amore interrotto e poi ripreso, un amore che è partito dalla terra e si è concluso nella terra, con quelle parole così – scusate – terrene, così aggrappate alla realtà, alla concretezza, alla materia da cui ognuno di noi arriva.
La terra, dico ogni volta. La terra è il tema del primo grande successo di José Saramago: Una terra chiamata Alentejo il titolo italiano, Levantado do chão il titolo originale, un titolo molto più potente – Alzato dal suolo – per un romanzo che parla di tre generazioni di agricoltori, del latifondo, dei primi movimenti contadini, e del tentativo di alzarsi, di alzare la testa, di guardare le stelle.
Stanno gli uomini nella capanna, distrutti dalla fatica, vestiti, alcuni dormono, altri non ci riescono, e dalle fessure tra le canne che formano le pareti entra un chiarore mai visto, il mattino è lontano, ma ancora non lo è, uno di loro esce e resta lì impietrito dal timore, ché il cielo è tutta una pioggia di stelle, stelle che cadono come lampioni, e la terra è rischiarata come nessun chiaro di luna può fare. Accorrono tutti a vedere, c’è chi si spaventa sul serio, e le stelle scendono silenziosamente, la terra sta per finire, o magari per cominciare, non è più senza tempo. Dice uno che passa per essere più saggio, Movimenti negli astri, movimenti sulla terra. Stanno tutti vicini, guardano lassù, con le gorge tirate, e si prendono sulla faccia sporca la polvere luminosa delle stelle cadenti, pioggia incomparabile che lascia alla terra una sete diversa e più grande.
José Saramago aveva un’idea particolare della Storia. Immaginava la Storia non come una linea retta ma come una gigantesca tela in cui ogni evento è legato all’altro al di là dell’ordine temporale, una tela da cui però scivolano le storie degli ultimi, le storie dei vinti, le storie delle persone di cui nessuno ha mai conosciuto i nomi.
Per questo motivo – per recuperare proprio quelle storie – Saramago ha raccontato le vite di persone normali in epoche eccezionali e poi, nella seconda parte della sua vita, ha raccontato le vite di persone senza nome in epoche senza tempo: per raccontare le vite di tutti e di tutte noi, per raccontare l’essere umano, i suoi istinti più biechi, i suoi lati incantevoli, i miei, i vostri, i suoi peccati e le nostre opere buone.
La terra, quindi. Questa terra, il Portogallo, che prima l’ha osannato e poi l’ha respinto. Questa terra all’epoca troppo legata alla tradizione cattolica per comprendere e accogliere quel capolavoro che è Il vangelo secondo Gesù Cristo. Sono cattolica anche io, e leggere quel romanzo mi ha prima sconvolta e poi commossa. E mi ha regalato una riflessione su Dio e sull’uomo che non dimenticherò mai: quando Gesù va al centro del lago, gli apostoli lo cercano, e lui trova la verità. Leggete Il Vangelo secondo Gesù Cristo, leggetelo soprattutto se siete credenti.
La Chiesa portoghese non accettò mai quel libro, e Saramago si sentì respinto dal suo stesso paese. Aveva già conosciuto Pilar del Rio, il suo grande amore, e con lei andò ad abitare in un luogo inospitale e bellissimo: Lanzarote.
Fu proprio il suo grande amore, Pilar, a farlo tornare alla sua terra, tanti anni dopo. Un Saramago anziano ma ancora pieno di vita tornò ad Azinhaga, il suo paese natale, la sua terra, accolto come un eroe. Era passato il tempo, il Portogallo era cambiato, forse era cambiato anche lui.
Quando si parla di Saramago si parla quasi sempre e quasi solo di Cecità. Che è un romanzo importante, sconvolgente, ancora più sconvolgente se letto oggi, dopo aver vissuto una pandemia, ma non è il solo, e forse – oso – non il più bello.
E poi quando si parla di Saramago si dice spesso «È difficile». E io ogni volta immagino lui, con il suo sguardo ironico, che risponde «Perché vuoi libri facili?». Saramago è difficile, certo. Un suo periodo può durare una pagina, anche due. E non ci sono virgolette per i dialoghi, pochissima punteggiatura. Ma come può essere facile l’opera di un autore che ha saputo raccontare l’essere umano? Come può essere semplice raccontare la vita di questa nostra terra?
Saramago ha scritto tantissimo sullo scrivere, molto più di tanti altri autori e autrici. E del suo stile ha detto una cosa illuminante e semplice: provate a leggermi ad alta voce.
Provateci, davvero. Cambierà tutto. E forse vi innamorerete delle sue opere, così come mi sono innamorata io. Provateci perché è come in quei film di fantascienza in cui la navicella spaziale all’inizio, quando si stacca dalla terra, sembra andare lentamente, poi sfonda una barriera e si trova in un’altra dimensione piena di blu e di stelle, e però dentro quella navicella ci siamo noi, tutte e tutti noi, e quelle stelle ci raccontano la nostra anima.
Quando tornerete a terra non sarete più le stesse persone.