Chiusi le mie tantissime valigie e partii per tornare a Torino il 22 settembre del 1999, esattamente un anno dopo il mio arrivo là. La borsa che avevo vinto era di dieci mesi, quindi in teoria sarei dovuta tornare a luglio ma onestamente come avrei potuto lasciare Lisbona all’inizio dell’estate?
Decisi un giorno di giugno, ero in giro per l’Alfama con la mia amica Lucia, anche lei in Erasmus lì.
Fu lei a dirmi «Vale ma perché non resti fino a settembre?». Io non avevo mai davvero pensato di poter prolungare il mio soggiorno: stavano andando via tutti i miei amici, le lezioni in facoltà erano finite, mi sembrava normale, naturale, che il mio Erasmus si chiudesse.
«Passiamo l’estate qua, magari ci troviamo un lavoro nel Bairro Alto, a settembre diamo qualche altro esame, e poi ci salutiamo. Che ne dici?»
Era l’ennesimo giorno di sole a Lisbona. Davanti a me, oltre le spalle di Lucia – me lo ricordo come fosse ieri – c’era la salita che porta al Castelo de São Jorge, e più in alto quel cielo azzurro che mi aveva accompagnata per quasi tutto l’anno. Pensai che sarebbe stato difficile dirlo ai miei genitori. Pensai che forse avrei avuto voglia di vedere i miei amici italiani. Pensai che la mia borsa di studio stava finendo, e che avrei dovuto chiedere soldi alla mia famiglia.
E poi per fortuna pensai anche che tutto si sarebbe potuto aggiustare: la reazione dei miei genitori, gli amici, i soldi, ma una sola cosa non si sarebbe potuta aggiustare: il mio tempo lì. Il mio tempo lì sarebbe finito una volta messo piede sull’aereo, il decollo da Lisbona avrebbe significato la fine del mio Erasmus, e sì, sarei potuta tornare altre centomila volte ma non sarebbe più stato, appunto, il mio Erasmus.
Dissi a Lucia che ci avrei pensato, e poi tornai a casa.
Casa era Casa Castilho, l’appartamento in cui avevo abitato in tutti quei mesi, quell’enorme casa fatta di quattordici stanze, due sale, due cucine, tre bagni (un po’ pochi tre bagni per quattordici persone, vero?), gli azulejos bianchi e azzurri alle pareti della cucina, Ash, il cane, sempre sdraiato davanti all’entrata, il citofono che non era un citofono ma un cordino con attaccato un campanello, Dona Irene che abitava al piano sotto e che ogni giorno veniva a fare le pulizie per Ico, il proprietario, e se le restava tempo anche per noi, ma che soprattutto veniva a raccontarci le storie di Lisbona, della dittatura, della rivoluzione, e quanto è cambiato il mondo, tu não imaginas, menina.
Entrai in camera, presi il cellulare e scrissi un sms alla mia mamma.
Mi puoi chiamare per favore? Sono a casa fino a stasera.
Dopo poco sentii lo squillo del telefono arrivare dal fondo del corridoio e poi la voce di Amparo che diceva Vale, telefone!. Corsi a rispondere, e cominciai subito a parlare. Dissi la verità. Dissi che volevo restare ancora. Che non avrei potuto immaginare vacanze migliori di quelle: a Lisbona, con il sole e l’oceano a due passi, con gli amici che sarebbero rimasti. E dissi anche che avrei cercato un lavoro, così non avrebbero dovuto mandarmi troppi soldi. E poi sì, certo, avrei dato altri esami a settembre.
Non trovai mai un lavoro, e la realtà è che non lo cercai neppure. I miei genitori mi dissero «Goditi l’estate e gli ultimi mesi lì, ti diamo noi quanto ti serve per stare bene. Ce li ridarai poi», e davvero li resi tutti, fino all’ultimo centesimo, nei mesi successivi.
Furono due mesi bellissimi di nuove amicizie, di serate che si concludevano puntualmente a mezzogiorno del giorno dopo, di passeggiate sotto quel cielo azzurro.
Mi capitò anche di innamorarmi.
E poi, dopo altri quattro esami passati i primi di settembre, mi ritrovai di nuovo con le valigie davanti. Non riuscivo a pensare di poter tornare a Torino in aereo, mi sembrava un distacco troppo netto, quindi prenotai l’autobus: Lisbona – Valladolid, una notte lì con i miei due ex compagni di casa Carlos e Susana, e poi in treno fino a Barcellona, e poi da Barcellona su un altro treno, di notte, per Torino.
Alla stazione di Porta Susa c’erano i miei genitori, erano le sette del mattino, e l’aria era fresca.
Li abbracciai.
Ora il tempo avrebbe dovuto aggiustare la mia malinconia.