Quando lessi l’elenco degli studenti accettati a Lisbona, quando capii che sarei davvero partita per un anno, decisi di andare a visitare quella città di cui non sapevo assolutamente nulla. Partii con la mia mamma, era aprile del 1998, il mio Erasmus sarebbe iniziato a settembre.
Né io né lei eravamo mai state in Portogallo. In più, molte (moltissime!) delle persone con cui parlavo all’epoca mi dicevano «Ah, bello, vai in Spagna». Un po’ come quando oggi dico che vivo in Lussemburgo e qualcuno mi dice «Ah, e come si vive in Belgio?», e io ogni volta sono indecisa se rispondere «Non so, chiedilo a chi vive in Belgio» o tagliare corto dicendo «Bene, grazie mille».
Il punto era che il Portogallo non era ancora conosciuto, e non a caso: era il 1998, e il paese era uscito da una lunghissima dittatura isolazionista da soli ventiquattro anni. Non solo: i portoghesi erano entrati a far parte dell’Unione Europea (allora Comunità Europea) solo nel 1986. Il Portogallo all’epoca era una democrazia giovane, stabile da pochi anni, ma soprattutto ancora alla ricerca di fama oltre il confine con la Spagna e con le sue ex colonie.
Quando porto le persone a Lisbona con i weekend di LuzBoa UpNDown una delle prime cose che dico è che il Portogallo ha passato secoli con lo sguardo rivolto all’oceano e alle province d’oltremare, e solo nel 1974, grazie alla Rivoluzione dei Garofani, e nel 1986 grazie all’Unione Europea, ha cominciato a voltarsi e a vedere e a riconoscere l’Europa e a sentirsene parte integrante.
La mia mamma e io arrivammo un giorno di sole, la temperatura era alta a confronto con quella di Torino, lasciammo le valigie in hotel e uscimmo subito per andare a prendere il tram 28, come suggerito da ogni guida. Decidemmo di andare a prenderlo al capolinea dell’epoca, ovvero in praça Martim Moniz.
Non fu un’ottima scelta, devo ammetterlo. Praça Martim Moniz è una piazza con una storia difficile, uno di quei punti che esistono in quasi ogni città in cui sembra che ogni tentativo di miglioramento finisca per avere l’effetto opposto.
Eravamo noi due alla fermata del tram, e oltre a noi quello che sembrava il nulla: una piazza vuota in pieno centro, con alcuni banchetti anch’essi vuoti sparsi qua e là (non capimmo subito che cosa fossero). Solo dopo qualche minuto ci rendemmo conto che guardando bene, si potevano intravedere alcune persone sdraiate sotto i portici, con le loro valigie e i loro cartoni. C’era un vento leggero che ci passava accanto, e c’era fra noi il silenzio di chi pensa di aver fatto la scelta sbagliata.
Cambiò tutto poche ore dopo. Passò il 28, e con lui facemmo il giro intero, dall’inizio alla fine, e poi cominciammo a visitare la Baixa, il Bairro Alto, e nei giorni successivi l’Alfama, la Graça, Marques Pombal, fino ad arrivare a Belem per mangiare i pasteis de nata. Camminammo tanto, e come sottofondo trovammo sempre lo stesso rumore: quello dei lavori in corso. Sì perché da lì a poco più di un mese sarebbe iniziata l’Expo 1998, un evento sul quale si concentravano le speranze dell’intera popolazione portoghese, l’evento che – si sperava – avrebbe cambiato il volto non solo della capitale ma di tutto il paese, e che in effetti fu qualcosa di molto simile a un red carpet grazie al quale il Portogallo riuscì a mostrarsi al mondo intero in tutta la sua bellezza, il suo fascino, la sua meraviglia.
L’Expo di Lisbona fu un enorme successo e fu per cambiare volto alla città, soprattutto nelle sue zone più sfortunate, e fu anche un volano per attirare il turismo di massa. Venne anche gestita in modo molto intelligente nel recupero delle strutture nel post evento.
È una storia di imprenditoria saggia e allo stesso tempo visionaria.
Io arrivai a Lisbona proprio l’ultimo giorno di Expo: Simone, l’amico con cui ero partita (che aveva vinto la borsa per la facoltà di Giurisprudenza), aveva prenotato una stanza per entrambi in una vietta dell’Alfama e quando ci sistemammo la proprietaria della casa ci disse di uscire, ci disse che tutta la città era fuori a festeggiare e che sarebbe stato un peccato per noi non vederla così.
Eravamo stanchissimi, e decidemmo di mangiare qualcosa in una tasca sotto casa e di andare a dormire subito. Avevamo tutto un anno davanti a noi.