Tutto tanto

La realtà è che è stato – o è – tutto tanto per tutti. Troppo. L’arrivo dei primi cristalli di neve, poi la valanga, e il rumore della valanga, e poi chi è rimasto sotto alla valanga, chi ai margini – ma ognuno di noi ha un amico o un’amica di un’amica che ha perso un padre, un nonno, una nonna per il covid – e poi l’angoscia del non sapere: non sapere come andranno le cose, quando finiranno, aspettare ogni giorno i dati alla stessa ora, guardare i grafici, prima solo i grafici del contagio poi quelli dei vaccini – perché non siamo veloci come l’America? – e poi finalmente vedere scendere quella curva, quella che per mesi era salita, e vedere quella dei vaccini salire, i primi conoscenti vaccinati – quale vaccino ti hanno fatto, sei riuscito a scegliere?, ti avranno mica fatto Astra Zeneca, guarda a me quel vaccino proprio non piace, manco stessimo parlando di marche di vini.

È stato tutto tanto, io non ho mai avuto problemi con la mascherina, la sopporto bene, ma ultimamente è come se tutta quella valanga, e il suo rumore, fossero rotolate lì dove sta l’anima, fra il cuore e lo stomaco, e sai cosa fa lì quella massa di neve? Diventa ansia, e allora mi sembra di respirare meno, mi sembra che sia la mascherina a togliermi il respiro e invece è quel tanto, quell’enormità che abbiamo vissuto tutti. Tutti, anche i negazionisti, perché in fondo anche il loro è un modo per gestire quel tanto: quel tanto non esiste, il covid non esiste, lalalala non sento niente.

E quindi è con quel tanto – se davvero è quasi finita come sembra – che dovremo fare i conti. Dovremo digerirlo, dovremo in qualche modo processarlo. Capirlo. Rileggerlo. Rileggere e ripensare a come siamo stati noi in questi mesi, perdonarci forse.
Mi piace vedere i miei post passati grazie ai Ricordi di Facebook: oggi salto a piè pari quelli del 2020 perché un po’ non voglio tornare con il pensiero a quei mesi, un po’ ho scritto un sacco di stronzate: a volte imbarazzanti, a volte assurde, a volte supponenti, volte semplicemente stupide (per fortuna non ho mai inveito contro i ventenni all’aperitivo, ecco nei confronti dei giovani ho sempre avuto compassione in questo periodo, anche solo per affetto verso una stagione che mi manca molto).

In questi mesi mi sono avvicinata alla Mindfulness, la mia amica Silvia la insegna, non l’ho fatto perché pensavo mi potesse servire, l’ho fatto perché se Silvia insegnasse pianoforte probabilmente avrei cominciato a suonare, ma ho scoperto che mi sta aiutando molto. Prendere i miei pensieri, farli stare fermi, osservarli bene e affrontarli, accettarli. Respirare, riportare tutto al respiro – vedi, arriviamo sempre lì, al respiro, è la vita, è la natura – chiudere gli occhi e vivere quel momento da cui fuggo troppo spesso.
C’è stato un momento, quando mio marito è risultato positivo – uno dei famosi asintomatici per fortuna – in cui dicevo alle amiche che mi scrivevano: hai presente quando in aereo ti dicono che in caso di atterraggio di emergenza devi piegarti in avanti in posizione di sicurezza, quella che chiamano brace? Ecco, sono così.
Ed ero così, sono stata così in quei dieci giorni chiusa in casa con lui chiuso in camera, senza sintomi ma con il terrore che arrivassero, ero in quella posizione, forse sono in quella posizione dall’inizio della pandemia, aspettare qualcosa senza sapere esattamente cosa sarà, se un impatto dolce o violento, e soprattutto senza sapere quando sarà.

Sto tornando proprio in questo momento dal primo viaggio post covid – diciamo post anche se non è esatto, ok io e lui siamo vaccinati a metà, io fra l’altro ho voluto proprio quel famoso Astra Zeneca brutto e cattivo, ma se apri i giornali trovi una nuova variante al giorno –  sono in aereo, la hostess ha appena spiegato la posizione brace e ha anche annunciato quella grande metafora della vita e dell’amore che è l’indossare la maschera prima di aiutare gli altri a indossarla, ed è stato un viaggio meraviglioso, noi quattro, con mio marito finalmente in vacanza con noi, siamo stati nel posto che amo di più al mondo che è il Portogallo, ed è anche andata bene con le misure di sicurezza, c’era così tanto sole e stavamo così tanto all’aperto che a tratti sembrava quasi che il covid fosse sparito davvero. Ecco, tutto bene, tutto bello, uno di quei ricordi di cui parleremo per anni, soprattutto credo che ricorderemo spesso quel momento in cui ho scambiato una boccetta di salsa di soia per un bicchiere di vino, ma io quel tanto, quella valanga, ce l’ho ancora tutta dentro, tutta in quel punto fra il cuore e lo stomaco, e quando siamo atterrati a Lisbona ho pianto, molti passeggeri applaudivano e io piangevo e secondo me le mie lacrime e i loro applausi erano polvere della stessa valanga, quel tanto che ci ha riempiti di dolore e di ansia, quel tanto con cui dovremo fare i conti, tutti.

E non sarà questione di qualche giorno, o di qualche mese. Sarà un processo collettivo, ci vorranno anni prima che questa cosa possa diventare storia, prima che ne possiamo parlare tutti senza risvegliare quella valanga, così come ci vorranno anni prima che qualcuno possa scrivere un romanzo bello, vero, reale, sulla pandemia – anche perché davvero, chi ha voglia oggi di leggere un romanzo che parla proprio di quella valanga che abbiamo ancora dentro?

È stato tutto tanto, e dovremo avere cura di tutti, dovremo prenderci cura di chi sta male, ma soprattutto dovremo prenderci cura di noi stessi, proprio come quella cosa della maschera dell’ossigeno in aereo, dovremo essere sicuri di saper respirare di nuovo e poi aiutare gli altri a farlo perché ecco tutto, tutto di questi mesi – la malattia, le terapie intensive, l’ansia, il rumore di fondo – tutto ci riporta sempre a quella cosa di cui non ci rendiamo conto fino a quando non comincia a mancarci: il respiro.

Pubblicato da Valentina Stella

Torinese, vivo in Lussemburgo, scrivo, racconto la cultura portoghese e accompagno gruppi a Lisbona. Ho scritto Se mi lascia non vale, per Zandegù, e Il resto è ossigeno, per Sperling & Kupfer.

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