Come vanno le cose. E cosa le guida. Un niente. A volte può cominciare con un niente, una frase perduta in questo vasto mondo pieno di frasi e di oggetti e di volti, in una grande città come questa, con le sue piazze, e la metropolitana, e la gente che cammina frettolosa uscendo dagli impieghi, i tram, le automobili, i giardini, e poi il fiume placido sul quale scivolano al tramonto i battelli verso la foce, là dove la città si allarga in un suburbio basso e bianco, sbilenco, con grandi pozze vuote fra le case come occhiaie scure e una vegetazione rada e i piccoli caffè sporchi, ristorantini dove si può mangiare in piedi guardando le luci della costa oppure seduti ai tavolini di ferro rosso, un po’ rugginosi, che fanno rumore sul marciapiede, e camerieri con la faccia stanca e la casacca bianca con alcune macchie.*
Domani saranno dieci anni senza Antonio Tabucchi.
Morì a Lisbona il 25 marzo del 2012, dopo una lunga malattia. Aveva solo 68 anni, e se quella malattia non se lo fosse portato via, oggi sarebbe qua, in questo pezzo di storia, e ci aiuterebbe ad affrontare l’imperscrutabile, a leggere il male della vita e di quella stessa vita i dettagli luminosi. Si arrabbierebbe con la guerra e scriverebbe parole di fuoco contro chi l’ha iniziata. Saprebbe curare con la tenerezza la disperazione di molti. Racconterebbe con la sua voce unica le assurdità di questi tempi, il rompersi degli equilibri, la speranza di quell’Europa di cui lui è stato figlio e autore.
Abitavo a poche vie da casa sua quando vivevo a Lisbona, e non lo sapevo. Oggi i miei giorni qua hanno sempre un momento di pellegrinaggio: vado in rua Castilho a osservare dalla strada il “mio” palazzo, di cui resta solo la facciata – è stato sventrato e trasformato in un condominio di lusso, così diverso dalla decadenza e dai muri scrostati del 1998 – e poi mi sposto poco più in là, da dove all’improvviso si può vedere il fiume con le sue monetine luccicanti. Alzo lo sguardo verso alcune finestre, rimango stupita – sempre – della profondità di ciò che ha lasciato.
Sarebbe con noi oggi Antonio Tabucchi se quella malattia non se lo fosse portato via. Ma poi ci penso e dico che forse è meglio così. Penso a lui, penso a José Saramago, morto due anni prima. Penso a quanto avrebbero sofferto nel vedere il totalitarismo a due passi da casa. Un totalitarismo così novecentesco, un totalitarismo così simile a quello che entrambi avevano conosciuto, sofferto, combattuto.
Pereira è un anziano stanco che pensa alla morte. È un anziano stanco che non riesce a smettere di frequentare il passato. Ma è anche un uomo che decide all’improvviso di cambiare strada. Di avere coraggio, e di prendersi gioco dei potenti.
Sostiene Pereira, pubblicato nel 1994, è l’ultimo grande romanzo europeo del Novecento. Antonio Tabucchi, con i suoi romanzi e le sue raccolte di racconti, con quel capolavoro d’amore e mistero che è Any Where Out of The World, è per me, italiana amante della letteratura portoghese, il perfetto compendio di Italia e Portogallo, di sangue e saudade, di Monteiro Rossi e Pereira. È impegno politico e tenerezza. È la letteratura. È l’Europa.
E mi manca tantissimo.
*dal racconto “Any Where Out of The World”, in Piccoli equivoci senza importanza.